Del dono si parla da secoli. Donare è un’azione quasi connaturata all’essere umano e, in quanto tale, ha risvolti (cause ed effetti) antropologici, religiosi, sociali e psicologici. Le ultime scoperte che arrivano dalle neuroscienze confermano che fa pure bene alla salute psicofisica di chi dona.
Allora per le organizzazioni dovrebbe essere facile ottenere donazioni; ma è così?
Ce ne parla Theofanis Vervelacis – consulente e formatore specializzato in sviluppo organizzativo, governance e gestione strategia – in questo articolo dedicato alla raccolta che stiamo curando in collaborazione con ConfiniOnline.
Non sono esperto, ma immagino che sia una questione di comunicazione e di (web)marketing. Serve un messaggio efficace in grado di raggiungere il target, utilizzando il canale più adatto e le tecniche più efficienti.
Appartengo alla generazione che è cresciuta con il dilemma “essere” o “apparire” e, ovviamente, l’etica “dominante” del periodo non aveva dubbi su quale fosse la risposta giusta. Oggi sappiamo che si tratta di un dilemma mal posto perché ci spinge a pensare necessariamente contrapposte le due dimensioni, che invece possono perfettamente coesistere e integrarsi. Non esiste un “essere” se non concepito entro un quadro di interconnessioni con il suo ambiente circostante. Dialogare con l’ambiente è costitutivo dell’essere e quindi il come comunicare e il come apparire diventano pratiche e risorse vitali.
Anche per gli ETS è vitale dialogare con il contesto di riferimento ovvero con i vari stakeholder. Uno dei motivi è anche quello riferito al reperimento delle risorse, siano esse economiche, tecniche, strutturali fisiche, di competenze, di energie psico-fisiche, ecc. Usiamo solitamente tre verbi, “dialogare”, “comunicare” e “apparire”, il significato dei quali ha un comune denominatore: quello di gestire strategicamente il rapporto con l’ambiente.
Nello specifico, nell’era post-riforma del TS, le organizzazioni vogliono apparire come attendibili e amabili. Colpire” sia la “testa” che il “cuore” dell’interlocutore, presentandosi con un modello solido di governance rispettoso di tutti i requisiti di compliance, efficace nel raggiungere obiettivi e generare valore sociale, e infine friendly e sostenibile sul piano economico, sociale e ambiente.
A tale proposito si usano le tecniche più sofisticate del digitale per raggiungere i propri interlocutori e catturare la loro attenzione (attenzione che è la risorsa più scarsa per la quale sono in corso le più aspre battaglie commerciali livello mondiale). Ricordiamoci solo che va bene l’effetto “stupefazione” per catturare l’attenzione ma prima o poi arriva anche il momento del dialogo e della riflessione. Riprendendo il dilemma citato poc’anzi, proprio perché non c’è contrapposizione, alla fine possiamo dire che a medio-lungo termine comunichiamo quello che siamo.
Allora ritorniamo alla domanda di sempre: chi siamo? Non è mai tempo perso riflettere sulla nostra propria mission, vision, purpose, valori, etica, ecc. Possono essere un “terreno” fertile sul quale impiantare una relazione con gli stakeholder in generale e il donatore effettivo o potenziale più nello specifico? Credo di sì.
Mission, vision, valori Codice Etico possono essere parole retoriche o possono diventare una bussola che orienta l’azione e quindi ottimi strumenti organizzativi per erogare servizi di qualità e creare il valore aggiunto desiderato (vedi anche Compliance, Etica e Organizzazione e La narrazione come azione organizzatrice – Bilancio Sociale e Codice Etico).
Vorrei approfondire l’argomento usando due strade: una “macro” ovvero focalizzando il contesto generale e una “micro” che si concentra su aspetti della vita organizzativa e del lavoro quotidiano. Per motivi di “lunghezza” del testo affronterò in questa occasione il primo aspetto, rimandando ad un prossimo contributo la trattazione del secondo.
Di fronte ai grandi cambiamenti del welfare, dei bisogni e dei canali di finanziamento, e della società nel suco complesso, gli ETS riesaminano la propria missione e vision ognuno a modo suo e per le sue ragioni. Ma esiste un denominatore comune: il terzo settore sta assumendo una sempre maggiore importanza nel sistema dei servizi territoriali, non solo sul versante “erogativo” ma anche su quelle “strategico e progettuale”, ossia della policy.
L’istituto della co-progettazione, con tutte le difficoltà implementative, l’aumento dei servizi rivolti all’utenza privata, la proliferazione di forme ibride e sinergiche con le aziende for profit per la promozione di nuova progettualità, sono dei segnali significativi. Insomma il terzo settore (intendo ovviamente anche il volontariato, anche se la riforma non ha tenuto conto della sua specificità) non è più – o almeno non è solo – la mano lunga della Pubblica Amministrazione. Si riconferma come attore capace di affrontare le problematiche sociali emergenti e promuovere l’innovazione sociale. Esprime la sua vera vocazione, che forse è “limitata” dentro il perimetro delle prestazioni autorizzate e degli accreditamenti.
È un ritorno alle origini per certi versi. Gli ETS, da organizzazioni espressioni della società civile che “annusavano” i bisogni seguendo e ascoltando gli utenti/cittadini bisognosi, si sono trasformati gradualmente, nei decenni passati, in organizzazioni accreditate ad erogare servizi progettati da soggetti pubblici declinati a prestazioni predefinite rivolti a utenti cittadini con in possesso di requisiti e aventi diritto.
Ovviamente si tratta di una schematizzazione che, se da una parte esprime “il modello dominante” dei servizi sociali dei decenni passati, dall’altra rischia di lasciare fuori una moltitudine di enti non profit che in questo sistema non sono affatto entrati o al limite solo parzialmente. Allo stesso tempo sia chiaro che non si vuole connotare l’offerta pubblica negativamente. Si vuole semplicemente sottolineare che in quel modello la distanza tra rilevazione dei bisogni ed erogazione del servizio è maggiore, in termini sia temporali che procedurali, rispetto alle pratiche dell’associazionismo tradizionale, caratterizzate per loro natura da una forte presenza sul territorio e da una relazione immediata con chi esprimeva il bisogno.
Inoltre durante il periodo di costruzione del “modello” dei servizi pubblici abbiamo assistito anche ad un processo di professionalizzazione degli operatori del settore e di “aziendalizzazione” degli enti, di cui noi consulenti e formatori siamo stati co-promotori e co-artefici.
Non appena terminata quindi l’incorporazione del “tecnicismo” nel know how degli enti ci si trova oggi di fronte ad una nuova sfida, ossia quella di riscoprire l’anima e l’istinto dell’ ”operatore di strada”, non per soppiantare il tecnicismo, ma per affiancarlo e integrarlo. Forse è questa la particolarità del momento (della post-modernità): non dividere e contrapporre approcci e visioni, ma unirli e integrarli per dar vita a qualcosa di nuovo. E non è facile questo nuovo cambio di paradigma di professionalità degli operatori che sono cresciuti con il paradigma del “tecnicismo” e della “competenza professionale”. Elementi che, collocati all’interno dell’aziendalizzazione, hanno creato stili comportamentali (la cautela è sempre d’obbligo nel generalizzare quando parliamo di un “settore” così variegato e dinamico) che oggi potrebbero essere di ostacolo nel fronteggiare le sfide delle nuove vulnerabilità. Ma come preannunciato di questo tema più micro ci occupiamo nel prossimo articolo ovvero, come non basti avere la mission ma sia necessario anche realizzarla; c’è sempre il rischio di “lavorare bene” e con competenza, ma di fare cose sbagliate.