Del dono si parla da secoli. Donare è un’azione quasi connaturata all’essere umano e, in quanto tale, ha risvolti (cause ed effetti) antropologici, religiosi, sociali e psicologici. Le ultime scoperte che arrivano dalle neuroscienze confermano che fa pure bene alla salute psicofisica di chi dona.
Allora per le organizzazioni dovrebbe essere facile ottenere donazioni; ma è così? – Pubblichiamo la seconda parte dell’articolo di Theofanis Vervelacis dedicato alla raccolta che stiamo curando in collaborazione con Confini Online.
Nella prima parte dell’articolo Donazione e dintorni. L’Impresa attendibile e amabile, ho sostenuto che rendere un’organizzazione attrattiva agli occhi di donatori (in termini di denaro, di tempo o di impegno), ovvero attendibile e amabile è una questione complessa e implica l’attivazione di tante leve, non per ultima quella della comunicazione del valore sociale generato. Ciò ci porta a riflettere sulla propria identità, sulla mission e sul purpose sia a livello macro-aziendale, aspetto già affrontato nel precedente articolo, sia ad un livello più micro- operativo che invece approfondiremo in questa occasione.
Il tecnicismo nei servizi, tipico nei regimi di accreditamento e della convenzione, richiede prevalentemente una qualità procedurale collegata alle specifiche di prestazioni definite su obiettivi prestabiliti a livello progettuale/contrattuale e rilevabili a posteriori (ad esempio con la customer satisfaction). In questo paradigma il focus del lavoro dell’operatore diventa inevitabilmente la conformità dell’output, “prodotto”, che solitamente si definisce entro i confini “aziendali” (spaziali e temporali). Quantità e qualità degli output, in sostanza, forniscono anche gli elementi di valutazione del valore generato, garantendo di fatto la stessa misurabilità delle “grandezze” in gioco. Basta leggere i Bilanci Sociali di molti enti, dove appunto si trova una quantificazione di meri output (prestazioni, posti letto, interventi, livello di soddisfazione ecc.) e scarsi riferimenti a outcome e cambiamenti generati nella vita degli utenti.
Con questo modello sono cresciute generazioni di operatori che hanno imparato a valutare il proprio operato e a relazionarsi con gli utenti entro un perimetro ben definito.
Oggi gli enti del terzo settore sono chiamati a rigenerare la propria capacità progettuale in sinergia con altri attori (il suffisso co- lo troviamo e lo mettiamo dappertutto), anche con gli enti pubblici, in una logica diversa che va a scardinare i classici canoni dell’impianto dell’accreditamento e delle modalità di affidamento attraverso i soliti dispositivi di gara. Allo stesso tempo la strategicità della dimensione comunicativa porta a rivedere il rapporto con il “sistema utenza” e ad adottare nuovi strumenti di dialogo.
La progettazione di nuovi servizi (dalla co-progettazione fino alla co-valutazione) porta a focalizzare non tanto l’output quanto l’outcome e mette sotto tensione gli abituali strumenti di gestione del personale, scombussolando le pratiche lavorative degli operatori che ora sono chiamati a gestire molte informazioni, relazioni e situazioni “fluide”.
Questo significa prendere decisioni con tempistiche che necessitano l’assunzione di nuove responsabilità e magari in orari non abituali (ad esempio nel caso dell’attivazione di un servizio serale). Ma soprattutto richiedono di avere sempre presente l’outcome perché, nella nuova relazione con l’utenza e il territorio, costituirà la bussola necessaria per orientare il fare. Da ciò deriva il rinnovato interesse per un modello di Codice Etico e professionale, impostato come nuovo paradigma in grado di dosare tecnicismo e passione, ragione e cuore.
Abbandono per un attimo il ruolo del consulente per assumere quello del cittadino e utente che, negli ultimi venti anni, ha usufruito di vari servizi gestiti da ETS (rivolti all’infanzia e all’età scolare, al dopo-scuola, al contrasto alle fragilità e agli anziani). Ebbene, da questa prospettiva ho potuto constatare che aziendalismo e “prestazionismo” e una presunta “professionalizzazione”, portano in realtà ad una totale spersonalizzazione del servizio.
Questo modello organizzativo ha portato gli ETS a tendere solo alla riproduzione dell’esistente, perdendo di vista il tesoro che si nasconde nel dialogo con l’utenza e nella capacità riflessiva del personale motivato. Ma come possiamo rieducare le organizzazioni e le persone che ci lavorano al dialogo, alla (meta)riflessione sul proprio lavoro e all’orientamento verso il cambiamento?
Serve un’altra narrazione rispetto al rapporto persona e organizzazione o, per meglio dire, tra persona e forza organizzatrice degli ETS. Cominciamo a non definire il personale come semplice stakeholder. Ha solo interessi? Forse è un po’ poco, è più corretto parlare anche di diritti e doveri.
Prendiamo come un esempio un servizio socio educativo. Nella logica tecnicistica l’obiettivo lavorativo dell’operatore è l’output, ossia la realizzazione delle attività previste, perché di quello è il diretto responsabile e perché è l’aspetto in qualche modo misurabile e monitorabile. Mentre l’outcome, inteso come rafforzamento di abilità o miglioramento delle relazioni nei reali contesti di vita dell’utente, è da considerare quasi una conseguenza del lavoro su cui il singolo operatore non può offrire garanzie, dal momento che entrano in gioco tanti fattori “esterni”, come tali difficili da tenere sotto controllo.
Lo scenario attuale richiede però un cambio di paradigma. Lo stesso output non può essere definito in una logica autoreferenziale, bensì in funzione di un outcome che, pur non potendo essere garantito, comunque dovrebbe essere la bussola per orientare il modo di lavorare e di progettare i servizi sociali. Ad esempio, pensare al miglioramento della vita della persona magari richiede di visitare il suo ambiente famigliare (non solo di fare un colloquio periodico con famigliare) e di ampliare la tipologia dei parametri presi in considerazione. Un’ipotesi di questo tipo, con i modelli erogativi attuali, richiede la riformulazione di alcune questioni pratiche quali “orario di lavoro”, “autorizzazioni/deleghe”, “lavoro di rete” “motivazione e impegno dell’operatore” che magari si davano per assunte. Sappiamo tutti che lavorare solo per l’outcome è molto meno stressante.
Rigenerare le capacità progettuali degli ETS, aumentare la loro affidabilità e capacità attrattiva non è mai facile. Mettere al centro l’outcome può aiutare a trovare una via più percorribile e attivare una cultura organizzativa che si orienti attraverso una declinazione operativa di strumenti quali la mission, la vision, la teoria del cambiamento e il codice etico e comportamentale in modo che essi non rimangano solo a livello di elencazione di annunci generali. Insomma, un modello “ethic oriented” a 360 gradi.
Serve un modello organizzativo che implica ripensare ai processi lavorativi in funzione non solo degli output ma anche e soprattutto degli outcome e dove controllo, collaborazione, responsabilità e autonomia (principi organizzativi indispensabili) devono essere considerati contemporaneamente, oltre che ridefiniti. Serve elaborare codici comportamentali capaci di fornire stelle polari per gli operatori che spesso si perdono nella fluidità delle situazioni.
A tale proposito rimandiamo ad una riflessione sulla “narrazione” come azione organizzatrice tra Bilancio Sociale e Codice Etico.